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Gaston-Gilles Granger, epistemologo sconosciuto agli italiani ma molto apprezzato in Francia e spesso citato dal grande Gilbert Lazard, ha sostenuto più volte che la linguistica è una "proto-scienza". Il "proto-" va inteso nello stesso senso in cui appare in protostoria, in quanto la linguistica, a dispetto del suo strepitare e del deplorevole marketing mediatico che alcuni ne fanno, è ancora ai primordi dell'evoluzione delle scienze. Granger ha portato diversi argomenti interni, epistemologici, a sostegno della sua dura valutazione. A quelli credo che si possano aggiungere altri argomenti esterni, non meno significativi.
Nelle scienze più svariate esistono scuole, indirizzi e prospettive diverse e maniere differenziate di interpretare i fenomeni. Alcune di queste varietà permettono addirittura di "vedere" cose che altre non vedono. Ma, quale che sia la scienza in questione, esistono dei paradigmi più o meno consolidati e stabili, condivisi e praticati, che costituiscono la base concettuale e metodologica della scienza stessa. L'unità sottostante di cui parlo non esclude, naturalmente, varietà di metodi analitici, di concetti operativi, ecc. Il grado di stabilità di una scienza dipende proprio dalla sua capacità di costruire assise unitarie.
Le scienze cosiddette umane, al contrario, si distinguono per la varietà pressoché frattale degli orientamenti. Basta guardare la filosofia, la sociologia, la psicologia per avere un'impressione di questo genere. Gli indirizzi e le scuole faticano a trovare aggettivi abbastanza espressivi per marcare la propria caratteristica. A un inesperto la varietà suddetta può sembrare ricchezza; in realtà, è indizio sicuro del fatto che quella disciplina è ancora una "protoscienza", distante dai fatti, incentrata più sui caposcuola che sui fenomeni, poco propensa alla generalizzazione delle proprie formulazioni.
La linguistica, ahinoi, sta tra queste ultime discipline. I giovani che si avviano ai nostri studi (malgrado la confusione imperante, ce ne sono ancora parecchi, benché -- giudicando dalle candidature dei dottorati italiani -- ogni anno di meno) si domandano per prima cosa: "In che quadro [anzi: framework] mi metto? Quale permette di concludere più facilmente? Quale permette di fare prima carriera?" Direi, senza voler malignare, che queste domande sono preliminari a quella che dovrebbe essere fondamentale per qualsivoglia scienza, e cioè: "Quale [dei vari frameworks] permette di avvicinarsi di più a capire le cose come stanno?" Quest'ultimo interrogativo si presenta tardi (if ever), perché i giovani capiscono subito, frequentando congressi e incontri, che la disputa teoretica, da noi, è talmente divaricata che alla fine... questo o quello pari sono!
Se volete un campione eloquente di queste notazioni, basta rivolgere lo sguardo non tanto all'Italia (frantumata anche qui, oltre che in tanti altri ambiti) quanto alla Francia. Rotta con il post-strutturalismo la bella unità teorica dell'epoca di Meillet, anche per l'azione duramente egocentrica e spesso repressiva del martinettismo e il singolare episodio del guillaumismo, in linguistica la Francia riproduce oggi quasi la situazione dell'epoca feudale. Come allora c'era per ogni castello, un signore, in linguistica c'è, per ogni università, un caposcuola (o anche più d'uno). E siccome le università e i laboratoires sono numerosi, sono numerosissimi i capiscuola, le scuole, i rappresentanti delle scuole e i loro rispettivi dottorandi. Insomma, la frammentazione è vastissima. Il francese offre una divertente formula verbale a chi domanda che linguistica si faccia in questa o quella sede. Qui si dirà "On fait du Gross", lì "On fait su Kleiber", più in là "On fait du Culioli", eccetera!
Non voglio, sarà chiaro, parlare solo della Francia. Gli USA sono quasi allo stesso livello: il generativismo ha sotto-scuole, molti gruppi eretici e alcune code di apostati (e di spostati). Il funzionalismo (ah, che termine improprio e poco espressivo!) ha mille sottoscuole: qua "on fait du van Valin", là "on fait du Givon", lì ancora "on fait du Talmy", e così via. In altri paesi, con minore frammentazione, si presenta la stessa situazione. Questi fenomeni sono indicatori dello stato della disciplina: varia, variegata, frantumata e non intercomprensibile.
Ogni castello un principe è troppo. Non serve all'avanzamento delle conoscenze, non serve ai giovani, non serve alla definizione dell'immagine della linguistica rispetto al mondo esterno. Serve solo a confondere le idee. Uno dei compiti delle due generazioni future di linguisti (quelle cioè che opereranno prima che l'informatica ingoi tutte le nostre scuole e sottodiscipline e le unifichi forzosamente come sue applicazioni) sarà proprio quello di cominciare a collegare i castelli e a "uccidere" opportunamente i signorotti, per arrivare prima che si possa a una scienza linguistica unificata e degna del nome.