domenica 19 aprile 2009

Il giorno dopo

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Noam Chomsky, il creatore della linguistica generativa, compie ottant'anni nel 2009. Tutti gli facciamo auguri di ancor lunga e fruttuosa vita

Il suo movimento ha più o meno mezzo secolo, essendo nato alla fine degli anni Cinquanta nella scia della pubblicazione di Syntactic Structures (1957). Non s'era mai visto, nella storia della nostra disciplina, un movimento ideologico-culturale così durevole, né è frequente il caso di un indirizzo che sia cresciuto per tanto tempo sotto l'occhio, più o meno benevolo, del suo fondatore vivente. E neanche in altre discipline un siffatto fenomeno è mai stato frequente. La psicoanalisi (che ebbe un irraggiamento e una dinamica evolutiva simili a quelli del generativismo, a partire dall'implacabile carisma personale del fondatore) non raggiunse un primato di questa portata. In generale, del resto, si calcola che le rivoluzioni (quelle politiche non meno che quelle scientifiche) durino più o meno una ventina d'anni, cioè coincidano con la vita della prima generazione delle sue élites. Dopo, nella scienza, o diventano 'scienza normale' (per usare l'utile espressione di T. S. Kuhn) o si dissolvono. 

Nel caso del generativismo, queste previsioni sono state sovvertite. L’indirizzo non è affatto diventato scienza normale (anzi: è ancora costantemente bersaglio di polemiche), ed è durato ben più della vita della prima generazione dei suoi esponenti (ciò dipende, certo, dal fatto che il padre fondatore è ancora vivo e attivo.) Il movimento, tra l'altro, si è infiltrato con propaggini varie in altri ambiti scientifici e intellettuali, producendo effetti non indifferenti: in alcuni ambiti infatti c'è chi si è convinto che quellagenerativa sia non una scuola di linguistica tra le tante, ma la linguistica tout court, alimentando così una pericolosa distorsione. 

Guardando le cose dall’altro lato, non sono pochi, in linguistica, quelli che ritengono che il generativismo sia stato essenzialmente uno sviamento rispetto a un cammino che, negli anni Cinquanta e Sessanta, si stava delineando con precisione e autorevolezza. Strutturalismo europeo e statunitense avevano disegnato una vasta piattaforma, da cui un importante programma di ricerca stava partendo. (Un’opinione di questo tenore l’ho raccolta a Parigi qualche mese fa, dalla viva voce di uno dei grandi decani della nostra povera scienza, e la condivido appieno. Non credo di essere il solo a pensarla così, e sono sicuro che se si facesse una consultazione estesa si scoprirebbe che questa valutazione è piuttosto diffusa).

Certo, anche chi non segue il movimento da vicino né lo ama in modo particolare (come me) deve riconoscere che gli si deve molto: dalla scoperta di una varietà di fenomeni linguistici che forse sarebbero rimasti ignorati, alla sensibilizzazione di altre discipline che forse sarebbero rimaste ignare, alla creazione di collegamenti e nessi. Non è poco. Ma non si può neanche trascurare che il movimento di Chomsky ha fatto della linguistica un dominio bipolare con ricorrenti accenti di apartheid. La bandiera sembra essere: chi è dei nostri va bene, chi non è dei nostri non rileva. Questa faglia ha finito per costituire un unicum nella storia intellettuale del Novecento, e, ancora, del Duemila. 

La frattura non potrebbe essere più evidente. I due partiti pubblicano su riviste diverse e mutuamente esclusive, hanno gerghi e riferimenti separati, parlano linguaggi non convertibili, ignorano gli uni i lavori degli altri, hanno frequentazioni complementari (e perfino costumi semi-endogamici), fanno congressi non intercomunicanti, e in molti casi si contendono, quasi come lobbies avverse, case editrici, posizioni, borse e finanziamenti. La mancanza di intesa è totale, la litigiosità (teorica) piuttosto elevata, e non mancano perfino episodi di discriminazione.

Io credo che questa bipartizione sia stata una reale catastrofe (nei due sensi del termine: svolta e disgrazia) e che abbia comportato, nella storia recente della nostra disciplina, costi intellettuali e umani spropositati e una quantità di vittime (teoriche e individuali) che ci saremmo potuti risparmiare. Sarebbe ora di cercare un punto di saldatura e immaginare un futuro coeso e (per quel che si può) pacifico. 

Il fatto che Chomsky sia oggi ottantenne pone il problema in modo evidente e ineludibile. Tutti gli auguriamo lunga vita, è ovvio, ma è nell'ordine della natura che a un certo momento si porrà il problema di come andare avanti. Non mi pare che nel movimento ci siano figure dotate del carisma (e dell’imperio intellettuale) del fondatore, anche se diverse candidature in pectore si intravvedono. Anche qui la psicoanalisi offre un analogo interessante. Alla morte di Freud, solo Jung poté candidarsi alla successione, e, dopo di lui, fu la diaspora più completa, che non è ancora finita. Analogamente, si può prevedere che la funzione di feeding intellettuale e teorico che per cinquant'anni Chomsky ha svolto di persona, con impressionante costanza e con totale, inconcussa indifferenza a ogni sorta di critica, rimarrà prima o poi senza titolare.

Mentre i generativi pensano (se poi lo fanno...) al loro futuro di scuola, cosa accadrà nel resto del mondo? Si potrebbe dire (un po' scherzando) che siamo dinanzi a uno di quei punti di biforcazione tipici della storia evolutiva. Come a un certo momento l'Homo Sapiens si separò dai suoi cospecifici e proseguì nell'evoluzione, in questo caso i generativi stanno forse per essere lasciati da un lato dall''altra' linguistica, che dopo mezzo secolo di piétinement riprenderà il cammino interrotto.

Non intendo dire che una delle due linee sarà costituita da scimmioni e l'altra da esseri umani (come potrebbe far sospettare la foto in alto...), ma ognuno dovrà, prima o poi, capire e far capire chi è.